Il silenzio è un bastardo di gran classe che inganna con elegante noncuranza.
Ci sono momenti in cui lo sentiamo indispensabile, se non addirittura esigenza vitale.
A un certo punto si instaura una sorta di automatismo e stare in silenzio diventa la normalità, non più un’eccezione temporanea alle regole del civile sentire.
Ho tentato spesso di tornare a scrivere, a far parlare quelle emozioni che, nonostante tutto, sento sobbollire dentro, ma non ne sono più stata capace.
Mi è parso che ogni concetto fosse stato già espresso in modo più incisivo, interessante e brillante da chi, diversamente da me, non si era fatto coniglio, intrappolato nelle pastoie del silenzio.
Così, molto semplicemente, ho taciuto.
Oggi ho cercato di incrinare il guscio in cui mi sono nascosta di mia volontà.
Non so neppure perché mi sia preso questo raptus, se sarà di breve durata o una tantum, se questi appunti, che sto scrivendo sul mio quaderno dalla copertina verde, vedranno mai la luce nel blog.
Oggi il silenzio di cui mi sono nutrita negli ultimi mesi mi è sembrato troppo indigesto.
Nel mio ultimo post ho parlato delle parole di un concorso cui ho rinunciato a partecipare ancor prima di aver tentato.
Dopo la parola contagio, si sono succedute complotto, solitudine e #andratuttobene.
Non ho un’indole particolarmente incline al complotto, anzi spesso sono abbastanza ingenua e fiduciosa, perché non penso che dietro ogni azione ci sia necessariamente del marcio in agguato, però sono convinta che la verità, oltre che del tutto soggettiva, sia una sorta di scatola cinese da aprire tra mille cautele; dentro e dietro la verità visibile se ne possono celare altre invisibili, più profonde, nascoste e non sempre del tutto cristalline.
Mi fido, persino troppo, ma a volte mi prende un irresistibile prurito, una voglia di scetticismo degna del miglior filosofo.
Non che questo mi porti all’atarassia, la calma imperturbabile davanti a passioni e sentimenti è troppo difficile per chi ha una buccia permeabile come la mia.
Sul #andratuttobene non ho voglia di esprimere un’opinione.
Non l’ho mai digerito, mi ha stufato fin da subito, solo uno dei tanti odiosi spot che tra poco la televisione ci propinerà con l’avvicinarsi delle feste.
Era evidente che tutto sarebbe andato come doveva andare, anche se non propriamente bene.
Gli unici a beneficiarne per pochissimo tempo sono stati gli animali.
Peccato che l’arroganza che ci contraddistingue tra le specie animali sia tornata a fare danni.
La solitudine, insieme al silenzio, è stata la vera compagna dei miei ultimi mesi.
Mi sono isolata in maniera terapeutica e ho limitato i contatti e le parole a quelle strettamente necessarie.
Ho affrontato il caldo estivo con il viso imbavagliato per troppe ore e l’incessante, ormai consueta, fame d’aria mi ha regalato una rabbia impotente, che ha avvelenato gran parte dei giorni.
Nonostante tutto e chissà in quale recesso, ho trovato le energie necessarie per affrontare il trasloco da una casa mai amata ma che, dopo anni di faticoso adattamento, mi calzava come un guanto. L’ho scambiata con un rifugio più piccolo e, almeno sulla carta, più vantaggioso, ma non riesco ancora a provare il giusto affiatamento che me lo faccia chiamare casa.
Ci stiamo ancora misurando a vicenda e ogni tanto il gomito o il mignolo cozzano contro spigoli inattesi.
Nei giorni trascorsi a inscatolare le mie carabattole, mi sono resa conto di alcuni aspetti di me che avevo sottovalutato.
Ho dovuto venire a patti con la mia tendenza all’accumulo, il voler trasferire ricordi ed emozioni a oggetti materiali ingigantendone il valore, il mio insistere nel procedere con una zavorra emotiva troppo pesante, un carapace che non mi sento ancora pronta ad abbandonare.
Questa me non mi è affatto piaciuta, pensavo di aver raggiunto quella maturità che mi faceva giudicare con sufficienza le altrui manie, maturità che sono invece ben lontana dal possedere.
Sono rimasta delusa da me stessa, non che non mi sia già capitato, ma credo non ci si abitui mai alla sensazione di guardarsi allo specchio e vedere non la persona brillante che ci immaginavamo, ma solo un gran casino.
In questo marasma di emozioni mi sono aggrappata a piccoli gesti necessari: cucinare, leggere, ascoltare musica fino alle lacrime, godermi un tramonto, ammirare il sorriso di girasoli che illumina una collina, veder sorgere la luna.
Ho letto tanto, solo nell’ultima settimana più di mille pagine che sembravano scritte solo per me.
No, non vi dirò di quali libri si tratta.
Ci sono storie che ci appartengono in maniera esclusiva dal primo momento in cui vi poggiamo gli occhi. Rendere altri partecipi del nostro sentire equivale a far loro un torto, come se un altrui giudizio tiepido o negativo fosse una ferita inferta a noi e alle parole che sentiamo nostre.
In questa pazza e deludente estate ho persino accarezzato l’idea di seguire un corso di scrittura, anche se per fortuna mi è passata abbastanza in fretta. Il verme saggio che abita la mela bacata mi ha fatto riflettere su voli pindarici e aspettative terrene, su ali di cera che si squagliano in fretta e umilianti cadute sul didietro.
Questo farneticaio© ha quasi del tutto consumato le pagine del mio quaderno verde e non so se varrà la pena di comperarne un altro a breve, però voglio appuntare un’ultima impressione di settembre.
In un giorno delle mie brevi vacanze, mi sono trovata a passare in uno di quei paesi di Langa assopiti dal tempo, immerso in un paesaggio di colline dolci, vigne cariche di uva, le montagne a fare da fondale a un cielo innocente di nuvole e peccati.
Guardando in su verso un gruppo di case antiche, restaurate senza la leziosità di certi architetti mondaioli, lo sguardo si è fermato su una piccola finestra incassata nel punto più alto, là dove lo spiovente del tetto faceva intuire una mansarda, un alloggio bohemien o forse soltanto un solaio pieno di giochi invecchiati insieme ai loro proprietari.
Sul vetro era stata dipinta una barca che, a vele spiegate, solcava un mare immaginario.
Mi sono chiesta spesso nei giorni a venire quanto potesse essere stato forte il desiderio di chi, radicato tra colline, montagne e onde d’erba abbia preferito sognare il mare.
Farneticaio©: (Far-ne-ti cà-io) s.m.
Neologismo coniato da Massimo Legnani, scrittore e amico carissimo, per descrivere il flusso di coscienza, a volte d’incoscienza, che sgorga libero e ribelle, incurante delle regole del buon senso, dalla penna di colui che farnetica.