Un paio di mesi fa sono andata a visitare la mostra di Felice Casorati ad Alba. Appena tornata ho scarabocchiato qualche parola frettolosa nel mio taccuino, per cercare di fermare le impressioni prima che sbiadissero e poi ho lasciato inconsapevolmente sedimentare tutto quanto.
Ci sono giorni in cui le parole non escono facilmente, stanno lì a fare il morto nel brodo dell’inconscio, pinneggiando pigramente come una matrona sovrappeso aggrappata al bordo della piscina, cerco di afferrarle, di costringerle in file disciplinate come brave scolarette, ma scivolano via dispettose senza che me ne accorga.
L’unica cosa da fare è ignorarle, non voltarsi a guardare, fingere indifferenza. Al momento giusto sono proprio loro a venire a prendermi per mano, pronte a prendere la loro strada.
Non sono un’esperta d’arte, non sono un critico, so cosa mi piace in modo puramente istintivo e sarebbe difficile descrivere quello che ho provato davanti alle opere di Casorati; per quanto mi sforzi non riesco a trovare parole migliori di quelle poche scritte di getto al mio ritorno: “Figure ieratiche, immobili ed enigmatiche, forme essenziali dal rigore matematico, tristezza solitaria e aliena, pulizia dei tratti, senso del colore magnifico, pastoso, materico, quasi tridimensionale, setoso come il raso lucido di un abito prezioso”.
Il quadro che precede le mie parole è quello che mi ha catturato maggiormente tra i molti che ho visto.
E’ stato dipinto al ritorno di Casorati dalla prima guerra mondiale, dopo un lungo periodo di forzata inattività pittorica, funestato anche dalla morte del padre, suicida.
In questo periodo sto leggendo un paio di libri che parlano della Grande Guerra, Come cavalli che dormono in piedi di Paolo Rumiz e La guerra dei nostri nonni di Aldo Cazzullo.
Ho sentito il bisogno di leggerli, per cercare di arginare la mia ignoranza su un argomento così fondamentale per capire questi tempi travagliati, perchè conoscere la storia che ha contribuito a crearci è il solo modo per mantenere radici salde e perchè lo scorso anno, passeggiando in un piccolo straziante cimitero friulano, ho pianto leggendo i nomi di tanti ragazzi giovani, morti in difesa di un ideale, giusto o sbagliato che fosse, senza ribellarsi e senza che gli fosse spiegato il perchè, mentre un gruppo chiassoso di loro moderni coetanei si ingozzava di panini e sigarette, stravaccati sulle panchine di pietra, confrontando l’un l’altro il modello di smartphone, aridi e indifferenti come il deserto.
Osservando il quadro mi sono immaginata un uomo ancora giovane ma con un bagaglio di orrori a far compagnia alle sue notti, che cerca di esorcizzare dipingendo, descrivendo il vivere quotidiano come un tiro al bersaglio con sagome di cartone a poco prezzo.
Non è il mio quadro preferito ma quello che più mi ha emozionato, che mi ha preso per mano, che mi ha spinto a scrivere, pensando a un uomo che affronta i suoi ricordi e i suoi demoni con un pennello in mano anzichè un fucile a baionetta.
Bersaglio
Disco bianco occhieggia,
getta il guanto della sfida.
Spara forte,
spara in fretta.
Fai cadere a terra
questa sagoma di cartone.
-Mi rialzerò, lo giuro-
Forza su,
dritto al cuore.
Vuoi che guidi la tua mano?
-Mi rialzerò, lo giuro-
Vuoi squarciare
questa sagoma di cartone.
Vuoi osservare
il lampo che trapassa.
Ti guardo negli occhi,
oscillo provocante.
Sparami su,
dritto al cuore.
Trema forse la tua mano?
-Mi rialzerò, lo giuro-
Tremo sulla molla,
il carrello geme.
Scorro via,
faccio posto.
Avanti un altro.
Colpisci su,
dritto al cuore.
Perchè abbassi la tua mano?
-Mi rialzerò, lo giuro-
Ascoltando Negrita