
fonte: web
Questo racconto é per una persona che ci sta provando.
Oggi ho preso un giorno di ferie. Mi sono alzata molto presto, l’aria frizzante mi ha costretto a indossare la prima giacca pesante della stagione, e sono uscita che faceva ancora buio.
In realtà una meravigliosa ora blu ha salutato il mio sguardo rivolto al cielo, una distesa stellata di cobalto.
Il tragitto in macchina è stato silenzioso. Sonno, stanchezza accumulata e nervosismo non hanno favorito grandi discorsi. In compenso, la natura ha cercato di addolcire il mutismo con un’alba spettacolare, che ha dispiegato un velo di colori pastello e lame di luce tanto nitida da fare male.
Cammino in un viale di querce, mi diverto a schiacciare sotto i tacchi le ghiande cadute, ancora verdi e tenere, che fanno un bel suono e rilasciano un profumo di bosco e vita tranquilla.
Se non fosse per il traffico che già intasa le strade, chiudendo gli occhi si potrebbe pensare di passeggiare per diletto.
Entriamo, c’è già molta gente che aspetta. Vedo volti pallidi, schiene curve, qualche donna con sciarpe o foulard, ma non hanno un volto mediorientale a giustificare il loro abbigliamento, si sentono numeri e sigle, 048, C01 e non sono certo i vincenti della lotteria; stupisce il silenzio rassegnato che aleggia, non c’è la solita corsa a prendere posto, il chi è l’ultimo, no guardi che toccava a me.
Ci sediamo, sedie scomode come da copione, e aspettiamo, aspettiamo, aspettiamo.
Non si fa che attendere il proprio turno in questo limbo dalle pareti bianche, si aspetta di ricevere l’ostia di un ago in vena, di contare lo stillicidio di una goccia alla volta, come fosse il ticchettio di un orologio a cucù, si nutre con pudore la flebile speranza che ciò che sta entrando nel corpo sia cura e non dilazione nel pagamento dell’ultima rata.
Attende con rassegnazione mista a premura chi accompagna, le ore passano, le gambe si accavallano impazienti l’una sull’altra, le dita scorrono annoiate sui telefoni, accartocciano quotidiani già colmi di notizie esauste, sfogliano riviste ormai datate che mostrano bikini e incongrue abbronzature estive in copertina.
Qualche telefonata sommessa, siamo ancora qui, il medico non è arrivato, c’è molta gente stamattina, ho visto passare una ragazza molto giovane sulla barella.
Usciamo che è sera. Oggi era una splendida giornata di sole, il cielo terso si intravedeva molto bene tra le veneziane abbassate. Voltando la testa ad ammirare il panorama, le cuffie nelle orecchie per attutire il ronzio delle macchine, non si sarebbe detto di essere su un lettino ma su una poltrona di casa, con la coperta sulle ginocchia e il gatto acciambellato di fianco. Si torna a casa nella luce tenera del tramonto, stanchi, spaesati e con la sensazione di non aver né perso né guadagnato. Il resto arriverà un passo alla volta, i giorni buoni e quelli aggressivi, la nausea, il pianto, i capelli che se ne vanno, l’impotenza di chi accompagna, la speranza che si affievolisce, toccare gli oggetti come fossero nuovi, parlare alle persone come fossero importanti, guardare vecchie foto come fossero appena scattate, gettare il superfluo, accudire il necessario, ingannare il tempo per farlo durare il doppio o il triplo che non si sa mai, potrebbe essere agli sgoccioli o magari ancora no.
Anche questo è cercare di vivere.